Una tragedia elisabettiana riletta con sensibilità contemporanea per una riflessione sull’amore e sul “possesso”, sull’invidia e sulla gelosia: “Otello / di precise parole si vive”, dal capolavoro di William Shakespeare, con drammaturgia di Lella Costa e Gabriele Vacis, scenofonia di Roberto Tarasco e scenografie di Lucio Diana, per la regia di Gabriele Vacis (produzione Teatro Carcano – distribuzione Mismaonda), in cartellone lunedì 10 e martedì 11 novembre alle 20.30 al Teatro Massimo di Cagliari racconta la storia di Desdemona, innamorata di uno “straniero” e vittima di “femminicidio” ante litteram per il primo, duplice appuntamento con Pezzi Unici / rassegna trasversa organizzata dal CeDAC / Circuito Multidisciplinare dello Spettacolo dal Vivo in Sardegna con il patrocinio e il sostegno del MiC / Ministero della Cultura, della Regione Autonoma della Sardegna e del Comune di Cagliari e con il contributo della Fondazione di Sardegna. Sotto i riflettori Lella Costa, raffinata affabulatrice, che presta volto e voce a tutti i personaggi del dramma, in un’intensa prova d’attrice, per un avvincente viaggio nei labirinti della mente e del cuore, tra il fuoco della passione “acceso” dalle parole del Moro di Venezia nell’animo della giovane nobildonna, affascinata dai suoi racconti e conquistata dalla personalità carismatica dell’abile condottiero, ma anche dalle dolorose vicissitudini di quell’eroe fiero e valoroso.
“Otello / di precise parole si vive” è una pièce affascinante e di sorprendente attualità, che affronta il tema complesso e scottante del femminicidio affidandosi alle parole poetiche e immaginifiche del Bardo inglese: «ogni uomo uccide ciò che ama», scrive Oscar Wilde nella struggente “Ballata del Carcere di Reading” e infatti il Moro di Venezia nel monologo finale afferma di aver compiuto il suo atroce oltre che inutile delitto, sacrificando un’innocente, in nome dell’amore. Una dichiarazione terribile che rimanda al retaggio della civiltà patriarcale, in cui l’adulterio poteva e perfino doveva essere punito con la morte per cancellare l’offesa inflitta alla famiglia e riscattare l’onore di colui che fosse stato tradito, quasi a ribadire la sacralità e l’infrangibilità del matrimonio ma anche la subalternità delle donne confinate nel duplice ruolo di mogli e madri, custodi della casa e dei figli e sottomesse all’autorità dei rispettivi padri e mariti.
“Otello / di precise parole si vive” – con un sottotitolo tratto da “Discanto” di Ivano Fossati, dove la citazione prosegue con «e di grande teatro…», in cui riecheggia anche il titolo della prima edizione dello spettacolo “Precise Parole”, rappresentato venticinque anni fa – trae spunto dal celebre dramma shakespeariano, con «una trama folgorante, il cui riassunto potrebbe sembrare una notizia di cronaca di oggi: un lavoratore straniero altamente qualificato, un matrimonio misto, una manipolazione meschina e abilissima, un uso doloso e spregiudicato del linguaggio, un femminicidio con successivo suicidio del colpevole», come sottolinea Lella Costa che ricorda il fascino immortale e la potenza dei classici e «quanto bisogno abbiamo di continuare a raccontare e ascoltare questa storia». Un racconto corale per voce sola – in cui l’attrice interpreta tutti i ruoli e che assume a un certo punto carattere di melologo o meglio di “rap shakespeariano” sulle note di “Soldi” di Mahmood: in scena sapientemente evocati appaiono così Otello, valente generale al servizio della Serenissima Repubblica di Venezia e l’infido Jago; il nobile Cassio, luogotenente del Moro e lo stolto Roderigo; il Doge e Brabanzio padre di Desdemona; ma anche una folla di cittadini che commentano i fatti; e le due uniche figure femminili, ovvero Emilia, sfortunata moglie di Jago e la bella Desdemona, la vera eroina di questa “favola nera”. Una giovane donna coraggiosa che ha sfidato le convenzioni per seguire l’amato, infrangendo le regole non scritte e le distinzioni di classe, per ritrovarsi a sua volta vittima del retaggio di una civiltà patriarcale per cui proprio colui per cui ha rinunciato a tutto, lasciandosi alle spalle un’esistenza tra i lussi e le comodità, i fasti mondani e l’eleganza della Serenissima per affrontare al suo fianco l’ignoto, con tutta l’ingenuità e l’entusiasmo della giovinezza.
“Otello” – ispirato a un racconto tratto dalle “Ecatommiti” di Giambattista Giraldi detto “Cinzio” – è in fondo un “dramma della gelosia” – quel «mostro dagli occhi verdi che dileggia il cibo di cui si nutre» – che Jago inietta come un veleno nel cuore di Otello, spingendo al delitto il condottiero, valente uomo d’armi ma inesperto nelle schermaglie amorose, quasi sorpreso, oltre che lusingato e profondamente riconoscente alla sorte per l’interesse dimostratogli dalla bella nobildonna veneziana, ammaliata dai suoi racconti, ma a sua volta prigioniero di profonde insicurezze, tanto da cadere fin troppo facilmente nell’inganno dell’alfiere. Nella tragedia annunciata, l’ingenuità apparente e la credulità del Moro, che pure si indovina abile stratega oltre che prode combattente, a fronte delle insinuazioni e alle menzogne del “fido” Jago, e la crescente insofferenza per il presunto rivale Cassio, alimentata dalla gelosia, mette in evidente il potere delle parole ma anche la fragilità del rude guerriero, che si scopre profondamente innamorato di una donna nelle cui mani è riposta la sua felicità.
Una novella italiana trasportata sulla scena offre lo spunto per una riflessione sul femminicidio: un assassinio che ha radici antiche, come dimostra il termine romano uxoricidio, ma che nelle sue molteplici varianti moderne assume paradossalmente sempre più il significato di un tentativo di riaffermare una (presunta) supremazia maschile, quasi a voler soffocare se non addirittura “punire” ogni forma di emancipazione femminile. Un delitto scaturito dalla passione, in una sorta di “raptus” o momentaneo stato di squilibrio mentale, secondo una visione “romantica” ormai fortunatamente superata, in cui la “follia amorosa” diventa giustificazione per gesti estremi e atti di violenza: una sorta di “archetipo” tramandato dalla letteratura e approdato perfino nel giornalismo, in cui si scambia l’amore con il possesso. Un equivoco fatale per cui i turbamenti del cuore e gli impulsi del desiderio, e perfino l’inevitabile sofferenza derivante dalla fine di una relazione, costituirebbero una spiegazione per comportamenti inaccettabili e per azioni contrarie alle leggi oltre che alla morale: “femminicidio” è una parola moderna per definire l’uccisione di una donna, in una società che ha imparato a riconoscere e contrastare, se non ancora a evitare, le discriminazioni di genere.
Nell’“Otello” agli inizi del XVII secolo William Shakespeare mette in scena un femminicidio, e nella fattispecie una sorta di arcaico “delitto d’onore” – seppure la vittima risulti agli occhi del pubblico del tutto innocente e perfino ignara dell’intrigo ordito contro di lei, oltre che assolutamente disarmata di fronte alla furia del marito, quasi fosse una improvvisa manifestazione di pazzia. Il destino di Desdemona, che pure non ha esitato ad abbandonare la casa paterna per sposare il Moro, dimostrando una saggezza e una maturità notevoli per la sua età e la sua stessa educazione, è irrimediabilmente segnato quando Jago la sceglie come strumento per la sua vendetta, per rifarsi di ipotetiche ingiustizie subite, sfruttando l’unico punto debole della corazza del condottiero: l’amore per la fanciulla travalica le sue esperienze, una nota gentile nella sua esistenza di uomo d’armi. Innamorato di Desdemona, Otello, giunto a Cipro dopo la tempesta che ha distrutto la flotta nemica, nella momentanea pace può concedersi un breve idillio nuziale con la sua sposa, finché le false rivelazioni infrangono l’incantesimo e egli reagisce nel modo peggiore, spezzando una vita e condannando se stesso a un futuro di desolazione, fino a uccidersi una volta scoperta la verità.
Nel raccontare «la tragedia vera di Desdemona, che si annida nel profondo delle anime», Lella Costa e Gabriele Vacis nel finale restituiscono la voce alla giovane donna, quasi a rimarcare che è lei la vera protagonista della storia, simile a tante, troppe, vicende reali in cui un crescendo di abusi e violenze culmina nel delitto. Capovolgendo il paradigma della cronaca, che troppo spesso si sofferma sulle ragioni dell’assassino, forse cercando una spiegazione per un gesto inaccettabile, a teatro si può e si deve rendere giustizia alle vittime, riportandole alla vita sia pure solo simbolicamente attraverso l’arte.























