C’è un curioso effetto karma nella crisi di Linkiesta. Solo un anno fa, per bocca del suo giornalista Massimiliano Coccia, veniva annunciata con toni trionfali la chiusura del conto corrente di Visione TV, presentata come prova definitiva della fine imminente di una voce scomoda. Un anno dopo, è la società editrice di Linkiesta a essere ammessa dal Tribunale di Milano alla procedura di concordato preventivo. A volte il karma è più puntuale dei tribunali.
L’Editoriale Linkiesta Srl, la società che edita la testata preferita dalla moglie di Coccia e vicepresidente del Parlamento europeo Pina Picierno, testata da molti percepita come organo ufficioso dell’oltranzismo ucraino in Italia, affronta una crisi finanziaria che si trascina da anni. Nel 2024 ha registrato perdite per circa 1,77 milioni di euro, con oltre 3 milioni di debiti; nei primi dieci mesi del 2025 ha accumulato altri 1,14 milioni di rosso. Fondata nel 2010 e diretta da Christian Rocca, la società edita un sito web, magazine, libri e organizza eventi, ma i ricavi risultano strutturalmente insufficienti rispetto ai costi, soprattutto del personale. Il termine per presentare un piano di risanamento è fissato al 7 gennaio 2026. La testata sopravvivrà al gorgo dei debiti della società?
Dal punto di vista industriale, il concordato trasforma di fatto l’editrice in un contenitore dei debiti pregressi. L’operazione mira a salvare il marchio e l’attività editoriale, mentre il “guscio” societario assorbe le perdite: una bad company di fatto, anche senza una scissione formale. È un meccanismo noto, ma comporta inevitabilmente che qualcuno – creditori, fornitori, lavoratori – paghi il conto.
Un punto del bilancio merita però particolare attenzione. Nel 2023 la voce più rilevante dei ricavi (circa il 57%) non era costituita dalle vendite caratteristiche – ridotte a pochi spiccioli – bensì da generici “accordi editoriali”, sui quali la Nota integrativa non spendeva una sola riga. Un silenzio significativo, visto che si trattava della principale fonte di fatturato. Il bilancio 2024, pur mostrando un aggravamento delle tensioni finanziarie, mantiene lo stesso impianto.
L’unico accordo editoriale noto pubblicamente – anche perché accolto con entusiasmo da Picierno – è la collaborazione con il quotidiano ucraino Evropeiska Pravda, sovvenzionato da varie organizzazioni atlantiste, per la testata Slava Evropi, presentata come progetto «in collaborazione con il Parlamento europeo», l’istituzione di cui Picierno è vicepresidente. Da qui una domanda legittima: gli “accordi editoriali” che reggevano il bilancio di Linkiesta erano questo progetto? O c’erano altri flussi? E di che natura? In un’epoca segnata da allarmi sulle interferenze esterne nell’informazione – lanciati con particolare veemenza proprio da Picierno e Coccia in chiave anti-russa – la trasparenza non dovrebbe essere un optional.
Il quadro si allarga se si guarda all’Ucraina. Dopo che l’amministrazione Trump ha chiuso i rubinetti dell’agenzia USAID, in decine di Paesi l’intero ecosistema informativo e associativo filostatunitense è stato terremotato. Prima di questo passaggio, in molti contesti nazionali interi settori del sistema politico e mediatico – spesso in sinergia con altre agenzie americane ed europee, governative e non – avevano costruito carriere luminose sulla base di un rapporto stabile con il loro elemosiniere.
Quando si sono viste manifestazioni di piazza durare mesi o anni, sostenute da migliaia di militanti perfettamente organizzati e allineati al verbo atlantista, si poteva scommettere sull’esistenza di un solido sistema di stipendi, prebende, borse di studio e sovvenzioni. Le decine di miliardi di dollari all’anno rappresentavano un formidabile strumento di soft power: una leva egemonica per modellare élite, opinione pubblica e istituzioni, e al tempo stesso un modo semplice e micidiale per rendere dipendenti interi settori – media, ONG, società civile – da fondi esterni. Così è stato anche in Ucraina, dove per tutto il 2025 – a causa delle sforbiciate di Trump – i media hanno pianto miseria.
La crisi dei media ucraini non riguarda solo la mancanza di soldi, ma il modo stesso in cui quel sistema è stato costruito. Per anni molti giornali e siti di informazione hanno vissuto grazie a finanziamenti esteri, soprattutto tramite programmi legati a USAID e altri rivoli sovranazionali europei. Questo ha permesso di lavorare anche in tempo di guerra, ma ha avuto un prezzo chiarissimo: chi paga spesso decide cosa è giusto dire e cosa no. Quando i fondi sono stati ridotti o bloccati, molte redazioni sono entrate in crisi perché prive di un vero pubblico pagante e di un mercato pubblicitario sufficiente. Nel frattempo, negli anni precedenti, voci critiche verso il governo o verso la linea ufficiale occidentale erano state chiuse, censurate o messe a tacere: meccanismi maccartisti che iniziano a mostrarsi sempre più chiaramente anche da noi.
La domanda finale, dunque, non riguarda solo Kiev. Questo modello di informazione finanziata, politicamente orientata e fragile alla prova dei conti è un problema esclusivamente ucraino, o sta contaminando anche il sistema mediatico italiano ed europeo? Se la sopravvivenza delle testate dipende da flussi esterni opachi, il problema non è solo economico, ma profondamente democratico. Il karma, a volte, serve proprio a ricordarlo.
di Pino Cabras





















