Leggo l’ennesimo sermone moralista pubblicato da Maninchedda e dai suoi accoliti, un articolo che pretende di dividere il mondo tra i “giusti” — ovviamente loro — e i “nazisti tra noi”, categoria dentro cui infilano chiunque non ripeta la loro liturgia geopolitica a senso unico.
E allora permettetemi di parlare in prima persona, senza veli e senza ipocrisie.
Io sono amico di Simone Spiga.
E non ho alcuna intenzione di nascondere questa amicizia per compiacere chi usa la parola “nazismo” come manganello politico, chi trasforma ogni dissenso in una colpa, chi vede estremisti ovunque tranne che nel proprio specchio.
Perché il problema non è Simone Spiga.
Il problema sono i nuovi sacerdoti del pensiero unico, quelli che gridano alla propaganda altrui mentre pretendono che noi ingoiamo la loro senza fiatare.
Quelli che si ergono a custodi della morale, ma poi non riconoscono mai — mai — il diritto degli altri a pensare diversamente.
Quelli che usano la parola “democrazia” come un mantra, ma la praticano come un recinto.
E allora sì: io li chiamo nazisti sionisti.
Non come insulto etnico o religioso, ma come definizione politica:
gente che predica libertà e poi costruisce sistemi di controllo del pensiero,
che brandisce la storia come una clava,
che decide chi può parlare e chi deve essere messo al rogo mediatico.
Sono nazisti — nel metodo.
Sono sionisti — nel modo di imporre una verità ufficiale invalicabile, intoccabile, indiscutibile.
Maninchedda fa questo: si sostituisce alla realtà, ai fatti, alle opinioni altrui, e poi proclama sentenze morali insieme ai suoi scribacchini travestiti da investigatori geopolitici.
Parlano di Hannah Arendt, della banalità del male, dell’assenza di pensiero critico.
Ma non si accorgono che descrivono se stessi: l’incapacità totale di ammettere un punto di vista diverso, la paura profonda di un dibattito aperto, la volontà di etichettare come “pericoloso” tutto ciò che non coincide con la loro narrazione.
E qui nasce il vero paradosso.
Chi oggi si erge a paladino dell’antifascismo, chi punta il dito contro “i nazisti tra noi”, è spesso il primo a replicare — con altri simboli e altre parrocchie — proprio quei metodi che dice di combattere:
la scomunica, il sospetto, la censura, il processo pubblico sommario.
Io difendo il diritto di qualunque cittadino di parlare, discutere, criticare.
Difendo il diritto di Simone Spiga di organizzare un incontro, così come difendo il diritto di chiunque di contestarlo — ma con gli argomenti, non con la delegittimazione personale.
La libertà non è un premio per i più fedeli alla linea.
La libertà è un rischio, un confronto, un terreno aperto — quello che ai “nazisti sionisti del pensiero unico” fa più paura.
Perché nel momento in cui permetti alle persone di pensare, scopri che non tutti la pensano come te.
E questo, per alcuni, è intollerabile.
Io invece rivendico con orgoglio il contrario:
la libertà prima di tutto.
La libertà di parola, di dubbio, di critica, di relazione.
La libertà di essere amici di chi si vuole, senza timore di finire in un articolo costruito con la solita arma spuntata: l’etichetta morale.
Se la nuova frontiera dell’attivismo politico consiste nel costruire liste di proscrizione e nell’additare chiunque non si allinei, allora sappiate che io non ci sto.
E continuerò a dirlo ad alta voce, anche quando dà fastidio.
I veri Nazisti sono quelli che hanno occupato il potere nelle istituzioni e nelle ASL, che danno voce ai delatori di professione.
Perché è proprio quando dà fastidio che la libertà serve davvero.
Di Raimondo Schiavone






















