A Sassari, sei artisti del collettivo ArtEntu sono stati assolti dall’accusa di danneggiamento per aver realizzato un “tappeto urbano” nei giardini di via Pertini.
L’intento era quello di sensibilizzare la cittadinanza — e in particolare i più giovani — sui temi del speculazione energetica. Un gesto simbolico, nato dal desiderio di lasciare un segno di bellezza e consapevolezza, che si è però trasformato in un caso giudiziario.
Il processo, conclusosi con l’assoluzione “perché il fatto non sussiste”, ha riacceso un dibattito fondamentale: fino a che punto l’arte di strada può essere considerata libertà d’espressione e quando, invece, diventa reato? Il nodo centrale della vicenda riguardava proprio il valore artistico dell’opera.
Per dirimerlo, la giudice Antonietta Crobu ha ascoltato esperti del settore, tra cui la direttrice della Pinacoteca Nazionale di Sassari. Anche il sindaco, Giuseppe Mascia, ha preso posizione con parole che hanno fatto il giro dei media: «Io avrei ringraziato l’artista». Una dichiarazione che ribalta la prospettiva, trasformando ciò che inizialmente era stato percepito come “imbrattamento” in un gesto di dono alla città.
La pubblica accusa, rappresentata dalla pm Rosanna Nurra, ha sottolineato come mancassero gli elementi oggettivi e soggettivi del reato: nessuna volontà di danneggiare, ma anzi, il desiderio di stimolare una riflessione collettiva su un tema di urgente attualità, la transizione energetica.
Il caso di Sassari porta alla luce una questione più ampia: in Italia, la street art si muove ancora in una zona grigia del diritto. Il nostro codice penale, all’articolo 639, punisce l’imbrattamento e il deturpamento di beni pubblici o privati. Una norma pensata per proteggere il decoro urbano, ma che raramente distingue tra vandalismo e intervento artistico.
Negli ultimi anni, però, alcune amministrazioni comunali hanno iniziato a riconoscere la street art come forma d’arte pubblica, avviando progetti di “mappatura” e tutela dei murales. A Bologna, Milano, Roma e Torino, ad esempio, esistono regolamenti e collaborazioni con artisti e collettivi per autorizzare interventi creativi negli spazi urbani. Tuttavia, manca ancora una cornice normativa nazionale che definisca con chiarezza i limiti e i diritti di chi realizza opere nello spazio pubblico. In assenza di una legge specifica, la valutazione resta affidata ai giudici, ai contesti e — non di rado — alla sensibilità delle istituzioni locali. Ed è proprio per questo che il processo di Sassari rappresenta un precedente importante: un riconoscimento non solo giuridico, ma anche culturale, della legittimità della street art come linguaggio espressivo e civile.
La città come tela, la libertà come diritto
La street art è, per sua natura, un linguaggio libero, spontaneo, urbano. Nasce dal bisogno di esprimersi fuori dai canoni istituzionali e dalle gallerie. È un’arte che vive nei muri, nei marciapiedi, nei sottopassi — luoghi che appartengono a tutti. Ma proprio questa sua vocazione pubblica la espone spesso a fraintendimenti: per alcuni è arte, per altri vandalismo. Eppure, quando il gesto creativo è guidato da un intento etico e civile, come nel caso di ArtEntu, la street art dimostra tutto il suo potere: ridare significato allo spazio urbano e trasformare la città in un laboratorio di idee, emozioni e consapevolezza. Difendere la libertà d’espressione di chi fa street art non significa legittimare il disordine, ma riconoscere che la bellezza può nascere anche fuori dai confini dell’arte “ufficiale”. Significa credere che il colore, quando parla di futuro e di ambiente, non sporca — ma illumina, afferma sui social l’Associazione Libertade.