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Mona Hatoum presenta la mostra “Behind the Seen” al Museo Nivola

9 Settembre 2025
in Cultura
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Mona Hatoum presenta la mostra “Behind the Seen” al Museo Nivola
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La Fondazione e Museo Nivola è lieta di presentare Behind the Seen, una mostra personale dell’artista Mona Hatoum, esito di una residenza svolta a Orani nel corso della quale Hatoum ha esplorato il territorio della Sardegna, approfondendo il contatto con le culture locali e le pratiche artigianali dell’isola.

La mostra aperta il 4 ottobre 2025 sarà aperta fino al 2 marzo 2026.

Curata da Giuliana Altea, Antonella Camarda e Luca Cheri, la mostra propone un itinerario tra opere storiche e molte nuove produzioni, alcune delle quali realizzate grazie alla collaborazione con artigiani locali. Behind the Seen riflette sul rapporto tra corpo, materia e territorio, tra ciò che è visibile e ciò che resta nascosto.

Attraverso un linguaggio che fonde minimalismo formale e tensione politica, Hatoum mette in discussione le modalità con cui lo spazio è normato, sorvegliato, colonizzato. Il suo lavoro non propone soluzioni, ma costruisce ambienti di esperienza e sospensione, in cui lo spettatore è chiamato a riposizionarsi continuamente, a negoziare il proprio punto di vista, a “vedere” ciò che resta dietro la scena.

In questo senso, le sue opere agiscono come zone critiche della percezione, in cui il gesto artistico diventa strumento di scavo, decostruzione e disvelamento.

Il titolo della mostra gioca infatti sul doppio senso tra seen (visto) e scene (scena), suggerendo uno sguardo dietro le apparenze, verso gli spazi nascosti dell’esperienza umana: la memoria, il trauma, l’identità e il desiderio di resistenza.

Attraverso opere che uniscono la ricerca formale a una profonda riflessione politica, Behind the Seen mette in discussione le strutture di potere che regolano il nostro modo di vedere e abitare il mondo, rivelando ciò che spesso è occultato dietro l’apparenza.

L’opera di Mona Hatoum si articola attorno a una serie di tensioni fondamentali: interno ed esterno, visibile e invisibile, attrazione e repulsione, controllo e vulnerabilità. Fin dagli esordi, la sua pratica si è configurata come un dispositivo critico capace di mettere in crisi la neutralità degli spazi, degli oggetti e delle forme, mostrando come ogni superficie possa nascondere una soglia di ambiguità o una zona di conflitto.

La dimensione del corpo – non solo come organismo fisico ma come entità politica e affettiva – è centrale nel suo lavoro. I primi interventi performativi degli anni Ottanta esplorano direttamente la relazione tra corpo femminile, spazio urbano e dispositivi di sorveglianza. In seguito, il corpo scompare dalla scena, lasciando il posto a tracce, impronte o oggetti simbolici del confinamento: gabbie, letti, reti e schermi ospedalieri diventano metafore spaziali della sua assenza-presenza, evocando una soggettività vulnerabile, esposta al controllo.

Il tema del controllo attraversa la ricerca di Hatoum per mezzo di strutture minimali che incorporano materiali allusivi e carichi di minaccia: il filo spinato, il ferro, il vetro, l’acciaio. Oggetti domestici – letti, sedie, utensili – vengono destabilizzati, trasformati in strumenti di contenimento o aggressione. Questa domesticità perturbata suggerisce che anche gli spazi dell’intimità possono essere attraversati da dinamiche di potere, coercizione e disciplina.

La sua esperienza personale – nata a Beirut da una famiglia palestinese, non è potuta tornare a casa a causa della guerra – informa una poetica della dislocazione che si manifesta non tanto in termini narrativi, quanto spaziali e percettivi. Il territorio è spesso evocato da forme frammentate, cartografie impossibili o percorsi pieni di ostacoli. L’opera Twelve Windows (2012–2013), ne è un esempio emblematico: realizzata in collaborazione con le artigiane dell’associazione libanese Inaash, presenta dodici pannelli di ricamo palestinese tradizionale sospesi nello spazio su cavi rossi per il bucato. L’installazione crea un ambiente attraversato da barriere visive e fisiche, evocando il tema della diaspora e dell’identità in esilio.

Questa topografia dell’instabilità si ritrova anche in opere come Divide (2025), un paravento ospedaliero trasformato in pericolosa barriera attraverso l’uso del filo spinato, o in Mirror (2025), una struttura reticolare priva di ogni funzione riflettente, che restituisce allo spettatore non la propria immagine, ma l’opacità del limite.

Untitled (red velvet) (1996) presenta un frammento di velluto rosso su cui è tracciato un disegno che ricorda un intestino o i lobi di un cervello: un motivo ricorrente nel lavoro dell’artista, che esplora la vulnerabilità del corpo e il sottile confine tra attrazione e repulsione.

La grande Untitled (bed springs) I (2018) è una litografia ottenuta stampando direttamente delle molle da letto industriali sulla pietra litografica. Il risultato è un’immagine negativa, simile a una radiografia, in cui la geometria regolare della griglia si deforma in una composizione biomorfica, suggerendo una tensione tra struttura e abbandono.

A questo nucleo si uniscono le opere realizzate appositamente per la mostra durante la residenza al Museo Nivola. Tra queste è la serie di gabbie per uccelli in ceramica, realizzate con il laboratorio artigiano Terra Pintada, in cui ritorna uno dei motivi strutturali ricorrenti nell’opera di Hatoum: la griglia come forma di contenimento, confinamento e controllo, in cui l’uso della ceramica – materiale fragile, legato alla tradizione decorativa – introduce una tensione visiva e simbolica.

Sempre in ceramica sono le forme di Gathering, simili a blocchi di terra pressata che richiamano paesaggi desolati, sui quali l’artista ha conficcato dei vecchi chiodi ossidati, come piccole figure umane raggruppate in comunità frammentarie. Le sagome allungate e le superfici scabre dei chiodi evocano le sculture postbelliche di Giacometti, artista con cui Hatoum ha instaurato un dialogo a distanza in una mostra attualmente al Barbican di Londra.

Sospese nello spazio, Shooting Stars I e II appaiono come geometrie esplose. I raggi metallici convergono in un centro denso e traumatico, evocando sia un corpo celeste che un ordigno detonante. Realizzata in collaborazione con il fabbro Emanuele Ziranu, l’opera unisce precisione tecnica e brutalità visiva. Le strutture irradiano forza ma anche instabilità, e la loro presenza nello spazio – appesa, fluttuante, pericolosa – agisce come punto di tensione percettiva.

Utilizzando una tecnica tradizionale unica della Sardegna, la tessitrice Mariantonia Urru ha realizzato il tappeto intitolato Eye Spy. L’apparente disegno casuale è in realtà la traduzione di un’immagine pixelata, ricavata da una registrazione digitale di un drone – una veduta aerea di una folla – trasformata in una superficie morbida e tattile. La lana, materiale caldo e familiare, si fa paradossalmente veicolo di una visione fredda e distaccata, tipica delle tecnologie militari o di controllo urbano. Il risultato è un tappeto che non accoglie, ma inquieta: un dispositivo visivo camuffato da oggetto domestico, che interroga la nostra relazione con la privacy, la vulnerabilità e lo sguardo del potere.

Molti dei temi che caratterizzano l’opera di Hatoum convergono nell’installazione che dà il titolo alla mostra, Behind the Seen, un assemblaggio di oggetti quotidiani, disposti nello spazio con apparente casualità ma carichi di implicazioni di senso. Un letto da ospedale, uno scolapasta irto di punte come una bomba chiodata, un groviglio di fili metallici, una sedia sbilenca, un peluche rovesciato sotto un tavolo, un pallone da calcio scucito: ogni elemento evoca una scena, un vissuto interrotto. Il titolo stesso suggerisce un doppio fondo: ciò che si mostra e ciò che resta celato, rimosso, invisibile. È una topografia dell’inconscio domestico, un interno scomposto che interroga la nostra relazione con lo spazio abitato, il trauma e la memoria.

Biografia

L’opera poetica e politica di Mona Hatoum si realizza attraverso una gamma ampia e spesso non convenzionale di media, tra cui performance, video, fotografia, scultura, installazione e opere su carta. Il suo lavoro affronta temi legati allo sradicamento, alla marginalizzazione, all’esclusione e ai sistemi di controllo sociale e politico. Nata a Beirut, in Libano, da una famiglia palestinese, Hatoum vive a Londra dal 1975, quando lo scoppio della guerra civile libanese le impedì di fare ritorno nel suo paese. Ha studiato alla Byam Shaw School of Art (1975–1979) e successivamente alla Slade School of Fine Art di Londra (1979–1981).

Hatoum ha partecipato a numerose esposizioni internazionali, tra cui la Biennale di Venezia (1995 e 2005), la Biennale di Istanbul (1995 e 2011), Documenta a Kassel (2002 e 2017), la Biennale di Sydney (2006), la Biennale di Sharjah (2007 e 2023) e la Biennale di Mosca di Arte Contemporanea (2013).

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Tra le sue mostre personali più significative si ricordano la grande retrospettiva organizzata dal Centre Pompidou di Parigi (2015), che ha viaggiato alla Tate Modern di Londra e al KIASMA di Helsinki (2016), e un’ampia personale negli Stati Uniti, promossa dalla Menil Collection di Houston (2017) e successivamente presentata alla Pulitzer Arts Foundation di St. Louis (2018).

Nel settembre 2022, tre mostre personali si sono svolte simultaneamente in tre istituzioni berlinesi: il Neuer Berliner Kunstverein (n.b.k.), il Georg Kolbe Museum e il KINDL – Centre for Contemporary Art. La sua più recente grande personale è stata allestita presso il KAdE di Amersfoort tra gennaio e marzo 2025. Nello stesso anno, le sue opere sono state messe in dialogo con quelle di Giacometti nella mostra Encounters: Giacometti x Mona Hatoum al Barbican di Londra.

Tra i principali riconoscimenti ricevuti: il Premio Joan Miró (2011), il 10° Hiroshima Art Prize (2017), il prestigioso Praemium Imperiale per la scultura (2019), assegnato dalla Japan Art Association per l’intera carriera, e il Premio Julio González 2020, conferito dall’Institut Valencià d’Art Modern – IVAM di Valencia.

Tags: "Behind the Seen"Mona Hatoummuseo nivola
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