L’ospitalità non può essere neutrale: il turismo deve essere responsabile e mai complice di violazioni dei diritti umani. Questo il cuore della lettera-appello che decine di host di Airbnb hanno indirizzato a Brian Chesky, il Ceo dell’azienda, per chiedere di “eliminare gli annunci di affitti nei Territori palestinesi occupati illegalmente da Israele”. Il movimento Host For Palestine – nato a Bologna, a cui hanno aderito centinaia tra affittuari e ospiti di Airbnb – guarda alla Cisgiordania e a Gerusalemme Est, ma pensa anche a Gaza, soprattutto dopo che la relatrice speciale Onu Francesca Albanese, nel report pubblicato il mese scorso, accusa decine di aziende israeliane e internazionali di “alimentare l’economia dell’occupazione e del genocidio”.
Ma non è la prima battaglia che viene fatta in questo senso: già nel 2018, dopo una campagna di pressione della società civile, la piattaforma rimosse circa 200 annunci di case negli insediamenti israeliani nella Cisgiordania occupata. Tali annunci vennero ripristinati alcuni mesi dopo.
Ora la questione torna d’attualità, dopo che il report di Albanese punta il dito contro piattaforme come Airbnb ma anche Booking: “Per questo genocidio non abbiamo più parole né lacrime e crediamo che, continuando a lavorare in questo modo, perdiamo di credibilità e di etica”, riferisce all’agenzia Dire Giovanna Anceschi, portavoce di Host for Palestine, affittuaria di Airbnb da una decina d’anni.
Il movimento ha preso piede a Bologna, ma in poco tempo “si è esteso in tutta Italia”. “Noi host- continua- abbiamo iniziato a interrogarci sulla correttezza di far parte di questa piattaforma, che ci faceva sentire in una posizione molto scomoda”. Da qui, l’idea di aprire un indirizzo di posta elettronica, per permettere ai singoli affittuari di aderire alla campagna: “Abbiamo ricevuto in poco tempo duecento messaggi” riferisce la portavoce della campagna, “un numero che ci è sembrato già sufficientemente forte e simbolico per scrivere all’amministratore delegato Chesky”.
Nel testo al Ceo di Airbnb, gli host evidenziano: “Abbiamo scelto di aprire le porte delle nostre case, delle nostre città e del nostro tempo perché crediamo profondamente nel potere dell’incontro, della fiducia e del rispetto reciproco” ma alla luce del report della relatrice Onu Albanese, “che evidenzia la complicità di Airbnb nel genocidio del popolo palestinese”, gli affittuari ribadiscono che non è possibile “ignorare che Airbnb continua a ospitare annunci di alloggi situati all’interno di insediamenti israeliani nei Territori Palestinesi Occupati, territori che il diritto internazionale e la gran parte della comunità globale riconoscono come illegalmente occupati”.
La campagna evidenzia che gli insediamenti sono stati dichiarati illegali nel 2014, in aperta violazione della Convenzione di Ginevra, della risoluzione 2334/2016 del Consiglio di sicurezza dell’Onu e del parere della Corte Internazionale di Giustizia del 2004. Pertanto, come Albanese rimarca nel suo rapporto, le compagnie che fanno profitti in quelle aree si starebbero rendendo complici di un’economia che sfrutta e aliementa violazioni e sofferenze. Airbnb, operativo a livello internazionale, sarebbe uno di questi colossi, che solo nel secondo trimestre del 2025 ha visto il proprio fatturato aumentare a 3,1 miliardi di dollari, rispetto ai 2,7 miliardi dello stesso periodo del 2024.
Ma dopo le prime duecento firme, le adesioni alla campagna Host for Palestine stanno continuando ad aumentare. Riferisce ancora Anceschi: “Colpisce il tenore delle riflessioni che le persone hanno liberamente aggiunto alla firma. Rivelano quanto il problema sia sentito da tutti e di come forse, come singoli individui, non sapessimo come uscirne”. Le piattaforme digitali tendono per loro natura a risparmiare il contatto umano diretto, ma possono anche favorirlo, come dimostra “il calore che ci è stato espresso per l’iniziativa e il fatto che ora al nostro gruppo stanno iniziando ad aderire anche i guest e qualche fruitore di Airbnb dall’estero”.
Dopo le accuse che Albanese ha lanciato alla piattaforma, qualcuno ha cancellato il proprio account. Ma per Anceschi non è la strada giusta: “Il cambiamento è un lavoro che deve avvenire dall’interno”. Al Ceo Brian Cesky viene richiesto anche di “pubblicare una posizione chiara e trasparente sull’uso della piattaforma in zone di conflitto e violazione dei diritti umani” nonché di “aprire uno spazio di confronto etico con la propria community di host sul tema del turismo responsabile e non complice“. Anceschi osserva ancora: “Airbnb è in prima linea contro razzismo e discriminazioni, come dimostra il fatto che l’host accetta la richiesta di affitto senza prima avere dettagli personali dell’ospite, che potrebbero suggerire nazionalità, colore della pelle, orientamento sessuale o religione. Molti, ad esempio, sul proprio profilo specificano di non fare ‘distinzioni di genere, fede o provenienza’”, a cui di recente si sta aggiungendo “l’host riconosce lo Stato di Palestina“. “Un modo per far sentire i palestinesi accolti”, conclude la portavoce, scrive l’agenzia Dire all’indirizzo www.dire.it.
























