Non tutti i colloqui sono uguali: una persona su 2 dichiara di aver subito discriminazione sul posto di lavoro o durante la selezione. E’ quanto emerge da un sondaggio recentemente pubblicato dal magazine britannico People management e condotto su 4.000 adulti, che ha inoltre rilevato come le donne abbiano quasi il doppio delle probabilità di denunciare discriminazioni rispetto agli uomini: una intervistata su 10 ritiene infatti di aver perso un ruolo a causa del proprio genere, rispetto al 5,2% dei colleghi.
Tra le varie forme di discriminazione individuate dal sondaggio la più comune è però risultata essere l’ageismo, ossia la discriminazione di persone in base all’età: il 15% ritiene infatti che la data di nascita impedisca loro di assicurarsi un lavoro. Una su 5 (19%) ha inoltre affermato di aver dovuto affrontare l’ageismo a un certo punto della propria carriera. Rilevante anche la discriminazione nei confronti di genitori o caregiver: tra coloro che hanno figli o figlie a carico o che si prendono cura di parenti anziani o di persone disabili, quasi un terzo (30%) ritiene di aver subito discriminazioni.
Scendendo maggiormente nel dettaglio, il sondaggio ha rilevato che quasi tre persone intervistate su 5 (il 57%) di età compresa tra 18 e 34 anni hanno dichiarato di aver subito discriminazioni sul lavoro, mentre ancora di più (il 59%) sono coloro che hanno subito discriminazioni nelle assunzioni. La percentuale scende nella fascia di età sopra i 35 anni: con il 31% degli intervistati e delle intervistate che dichiara di aver subito discriminazioni
“La discriminazione nei colloqui di selezione – commenta Cristina Danelatos, board member di Zeta service, azienda italiana specializzata nei servizi hr e payroll – è un problema radicato e che, dal nostro punto di vista, limita il potenziale delle aziende Non si tratta “solo” di una questione etica, che pure è rilevante, ma di pratiche che impediscono, in virtù di pregiudizi sovente di natura culturale, anche l’inclusione di talenti preziosi che possono contribuire alla diversità e all’innovazione. Ogni persona reca con sé esperienze uniche e risorse preziose, che possono facilitare la crescita aziendale, favorendo la creatività, migliorando la percezione interna ed esterna dell’impresa e promuovendo una cultura d’inclusione, rispetto e opportunità per tutti e tutte”.
I numeri in arrivo da oltremanica, se accostati ad altre recenti indagini sul medesimo argomento, danno un quadro piuttosto sconfortante. Anche in tema di disabilità: un sondaggio americano pubblicato da Hrbrew.com e condotto intervistando oltre 2.000 lavoratori e lavoratrici, infatti, ha rivelato come il 25% delle persone intervistate con disabilità abbia rivelato come questa rappresenti una sfida nell’ambito dei processi di selezione. Il 37%, inoltre, ha affermato di avere difficoltà a capire dalle job description se i ruoli per i quali si candidano potranno essere adatti alla loro condizione.
Circa il 33% ha inoltre affermato di non sentirsi a proprio agio nel rivelare la propria disabilità nel processo di ricerca di un impiego. Riattraversando l’Atlantico le cose non sembrano andare molto meglio. L’Università di Cardiff, l’Università di Liverpool e la Thames Water hanno infatti condotto di recente uno studio sociologico su larga scala in 5 città britanniche, presentando domande fasulle per oltre 4.000 posti di lavoro vacanti, identificandosi una parte come aspiranti lavoratori su sedia a rotelle e una parte come candidati privi di disabilità.
Le candidature riguardavano principalmente e volutamente due categorie professionali, quella della contabilità e dell’assistenza finanziaria, che non ponevano ostacoli di natura fisica. Il risultato? E’ stata riscontrata una discriminazione significativa nei confronti dei candidati disabili, con un tasso di recall inferiore del 15% rispetto ai candidati senza disabilità. La discriminazione è stata più forte per il ruolo, meno qualificato, di assistente finanziario, dove il divario era addirittura del 21%. Curiosamente, anche per i posti di lavoro da remoto non sono stati registrati divari minori, sollevando interrogativi sulla capacità dello smart working di contrastare la discriminazione nei confronti delle persone disabili.





















